NOI SIAMO
QUELLI CHE...

Pensano che le informazioni sullo stato di salute delle persone e delle comunità, sulle malattie e gli infortuni, sulle cause di entrambi...costituiscano una premessa indispensabile per fare prevenzione;
Offrono alle istituzioni, ai corpi intermedi della società...valutazioni, proposte, azioni di informazione e formazione con l'intento di partecipare...;
Non hanno conflitti di interesse...per cui sono liberi di dire ciò che pensano
Comunicano in modo trasparente...
Non hanno tra gli obiettivi prioritari la difesa di categorie o di singole figure professionali...
Cercano un continuo confronto con le altre Società scientifiche che operano nel mondo della prevenzione...
Non hanno mai smesso di credere nella necessità di un sistema pubblico di prevenzione diffuso in tutto il paese, in grado di garantire il diritto alla salute e di contrastare le diseguaglianze.
Pensano che la solidarietà e la partecipazione siano ancora valori indispensabili.
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Rischi rilevanti – U. Laureni

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Tempo di lettura: 7 minuti

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 La logica delle indagini sul crollo di Genova viene ben riassunta in un articolo di Repubblica (di Filetto e Preve) del 28 agosto. La Procura, nell’investigare sulla vita del viadotto Morandi, dovrà appurare chi avesse compiti di controllo e intervento e chi potesse autorizzare le eventuali spese relative. E andrà ricostruita l’intera catena gerarchica per capire, in particolare, se chi doveva prendere decisioni fosse stato correttamente informato sulle condizioni del ponte e con quale tempistica. Si dovrà accertare a quando risalissero le prime consapevolezze, se non del rischio di crollo, perlomeno dello stato di avanzato deterioramento del manufatto.

Si andrà a ricercare, insomma, se era rispettata la logica secondo cui bisogna conoscere per decidere, con ruoli chiari che non si prestino ad ambiguità.

Se è doveroso non dire nulla sulla vicenda specifica, può essere interessante tentare un parallelo con altri ambiti nei quali il rispetto di questa logica diventa decisivo.

Se ci riferiamo agli eventi di estrema gravità che possono verificarsi negli impianti industriali a rischio di incidente rilevante (vedi Legge Seveso e successive), la loro valutazione spetta al titolare. Il documento predisposto individua le diverse ipotesi di evento incidentale (scoppio, incendio, irraggiamento), che potrebbero coinvolgere le aree esterne all’impianto e le valuta in termini di probabilità. Per quelle ritenute “abbastanza” probabili si passa alla valutazione degli effetti, cioè del danno per gli esseri umani che vivono al di fuori dell’impianto.

Sul documento si avvia un confronto dialettico tra proponente e controllore pubblico; confronto che, soprattutto per impianti esistenti, è caratterizzato da una posizione pubblica orientata (quasi) sempre a proporre interventi migliorativi dell’impianto, piuttosto che alla sua chiusura. In sostanza se una ipotesi incidentale risulta “troppo” probabile o inaccettabile perché sono troppo elevati gli effetti dell’evento nelle aree esterne, si cerca, con successive richieste di adeguamento, di riportare il tutto a condizioni di rischio “accettabile”. Poiché il rischio è il risultato del prodotto di probabilità dell’evento e della sua magnitudo, si cerca di abbassare la probabilità degli eventi individuati (per esempio migliore manutenzione, impianti di controllo sempre più sofisticati, maggior formazione degli addetti,..) e/o riducendone la magnitudo, cioè l’entità degli effetti avversi (per esempio riducendo i volumi di stoccaggio delle sostanze pericolose, intercettando più rapidamente un rilascio di tossici, adottando specifici piani di emergenza esterna, evitando gli effetti domino, allontanando alcuni insediamenti umani esterni,…).

Questi miglioramenti dovrebbero garantire che l’attività è compatibile con l’ambiente antropizzato esterno (quello che si vuole evitare, come si diceva, è il danno alle persone che convivono con l’impianto) e che non è necessaria la sospensione dell’attività. L’ipotesi estrema viene così evitata o, per così dire, rinviata al successivo controllo periodico. E’ del resto intuibile quanto possa essere difficile, per i tecnici degli Enti pubblici coinvolti nella valutazione dialettica a cui si è accennato, proporre l’opzione della chiusura dell’impianto, con le relative ricadute occupazionali.

Premessa di questa procedura è quindi la esauriente conoscenza dell’impianto e dei punti singolari di pericolo da cui può scaturire un rischio per chi dall’esterno deve convivere con l’impianto. Il pericolo è intrinsecamente presente (sono impianti pericolosi per definizione, a prescindere dal loro stato) ma dobbiamo imparare a maneggiarlo, evitando che possa avere effetti sugli esseri umani.

In sostanza a fronte di un pericolo devo far sì che il rischio sia basso. Se nessuno risulta esposto, la magnitudo è zero e con essa il rischio associato. Passando ad un esempio banale, se le linde di un tetto sono pericolanti, si transenna tutta l’area intorno ai marciapiedi, per cui nessuno può subire un danno…

Può essere utile rifarci a queste considerazioni, ricordando che anche un viadotto stradale è per definizione una installazione pericolosa (come ogni carico sospeso).

In questo caso come possiamo ridurre i rischi giocando su probabilità e magnitudo? Le persone (i mezzi) ci passano sopra, per cui la magnitudo (gli effetti avversi) dell’evento crollo non può essere ridotta, se non mettendo limiti alla funzione per cui è stato costruito, o disattivandolo. Non basta. Oltre al traffico, che è aumentato negli anni assieme con il trasporto di merci pericolose, la magnitudo cresce anche a causa dei condomini sopra cui si è costruito il viadotto. Abbiamo saputo che sotto il ponte vi erano attività per cui non si possono escludere che sotto i detriti vi siano bombole di gas (e questo si sarebbe dovuto sapere a priori). E i detriti potrebbero fare da diga al torrente, esasperando gli effetti di una piena.

E questo limitandoci agli effetti sulle persone,

 senza ricordare il danno economico immenso per la città e per il Paese.

Visto che il ponte (quel ponte) era vitale e vista l’entità della magnitudo (forse sottostimata, come si è detto), diventava essenziale operare al meglio per ridurre a zero la probabilità dell’evento crollo, all’interno di quella che era la sua vita operativa, con termine nel 2030. In questo senso dovevano operare la manutenzione, i controlli, le reti di sensori….

Gli esiti dei controlli e delle consulenze, da quello che se ne può sapere, contengono segnali allarmanti ma si muovono sempre in quella logica “conservativa” a cui si è accennato parlando degli impianti industriali a rischio. Non si parla mai esplicitamente del rischio crollo e gli esiti dei controlli tecnici sono formulati in modo da lasciare spazio, in fase di decisione, ad interpretazioni comunque interlocutorie, che porteranno semmai alla richiesta di ulteriori verifiche.

Saranno gli approfondimenti della Procura a dire se l’evento crollo non sia stato contemplato in quanto non ritenuto possibile in base alle valutazioni tecniche o se abbia giocato un ruolo anche la difficoltà, di cui si è detto, di pronunciarsi in tal senso a fronte di un’opera vitale.

    30 agosto 2018                                                                                                                Umberto Laureni

 

 

 

 

 

 

 

 

La logica delle indagini sul crollo di Genova viene ben riassunta in un articolo di Repubblica (di Filetto e Preve) del 28 agosto. La Procura, nell’investigare sulla vita del viadotto Morandi, dovrà appurare chi avesse compiti di controllo e intervento e chi potesse autorizzare le eventuali spese relative. E andrà ricostruita l’intera catena gerarchica per capire, in particolare, se chi doveva prendere decisioni fosse stato correttamente informato sulle condizioni del ponte e con quale tempistica. Si dovrà accertare a quando risalissero le prime consapevolezze, se non del rischio di crollo, perlomeno dello stato di avanzato deterioramento del manufatto.

Si andrà a ricercare, insomma, se era rispettata la logica secondo cui bisogna conoscere per decidere, con ruoli chiari che non si prestino ad ambiguità.

Se è doveroso non dire nulla sulla vicenda specifica, può essere interessante tentare un parallelo con altri ambiti nei quali il rispetto di questa logica diventa decisivo.

Se ci riferiamo agli eventi di estrema gravità che possono verificarsi negli impianti industriali a rischio di incidente rilevante (vedi Legge Seveso e successive), la loro valutazione spetta al titolare. Il documento predisposto individua le diverse ipotesi di evento incidentale (scoppio, incendio, irraggiamento), che potrebbero coinvolgere le aree esterne all’impianto e le valuta in termini di probabilità. Per quelle ritenute “abbastanza” probabili si passa alla valutazione degli effetti, cioè del danno per gli esseri umani che vivono al di fuori dell’impianto.

Sul documento si avvia un confronto dialettico tra proponente e controllore pubblico; confronto che, soprattutto per impianti esistenti, è caratterizzato da una posizione pubblica orientata (quasi) sempre a proporre interventi migliorativi dell’impianto, piuttosto che alla sua chiusura. In sostanza se una ipotesi incidentale risulta “troppo” probabile o inaccettabile perché sono troppo elevati gli effetti dell’evento nelle aree esterne, si cerca, con successive richieste di adeguamento, di riportare il tutto a condizioni di rischio “accettabile”. Poiché il rischio è il risultato del prodotto di probabilità dell’evento e della sua magnitudo, si cerca di abbassare la probabilità degli eventi individuati (per esempio migliore manutenzione, impianti di controllo sempre più sofisticati, maggior formazione degli addetti,..) e/o riducendone la magnitudo, cioè l’entità degli effetti avversi (per esempio riducendo i volumi di stoccaggio delle sostanze pericolose, intercettando più rapidamente un rilascio di tossici, adottando specifici piani di emergenza esterna, evitando gli effetti domino, allontanando alcuni insediamenti umani esterni,…).

Questi miglioramenti dovrebbero garantire che l’attività è compatibile con l’ambiente antropizzato esterno (quello che si vuole evitare, come si diceva, è il danno alle persone che convivono con l’impianto) e che non è necessaria la sospensione dell’attività. L’ipotesi estrema viene così evitata o, per così dire, rinviata al successivo controllo periodico. E’ del resto intuibile quanto possa essere difficile, per i tecnici degli Enti pubblici coinvolti nella valutazione dialettica a cui si è accennato, proporre l’opzione della chiusura dell’impianto, con le relative ricadute occupazionali.

Premessa di questa procedura è quindi la esauriente conoscenza dell’impianto e dei punti singolari di pericolo da cui può scaturire un rischio per chi dall’esterno deve convivere con l’impianto. Il pericolo è intrinsecamente presente (sono impianti pericolosi per definizione, a prescindere dal loro stato) ma dobbiamo imparare a maneggiarlo, evitando che possa avere effetti sugli esseri umani.

In sostanza a fronte di un pericolo devo far sì che il rischio sia basso. Se nessuno risulta esposto, la magnitudo è zero e con essa il rischio associato. Passando ad un esempio banale, se le linde di un tetto sono pericolanti, si transenna tutta l’area intorno ai marciapiedi, per cui nessuno può subire un danno…

Può essere utile rifarci a queste considerazioni, ricordando che anche un viadotto stradale è per definizione una installazione pericolosa (come ogni carico sospeso).

In questo caso come possiamo ridurre i rischi giocando su probabilità e magnitudo? Le persone (i mezzi) ci passano sopra, per cui la magnitudo (gli effetti avversi) dell’evento crollo non può essere ridotta, se non mettendo limiti alla funzione per cui è stato costruito, o disattivandolo. Non basta. Oltre al traffico, che è aumentato negli anni assieme con il trasporto di merci pericolose, la magnitudo cresce anche a causa dei condomini sopra cui si è costruito il viadotto. Abbiamo saputo che sotto il ponte vi erano attività per cui non si possono escludere che sotto i detriti vi siano bombole di gas (e questo si sarebbe dovuto sapere a priori). E i detriti potrebbero fare da diga al torrente, esasperando gli effetti di una piena.

E questo limitandoci agli effetti sulle persone,

 senza ricordare il danno economico immenso per la città e per il Paese.

Visto che il ponte (quel ponte) era vitale e vista l’entità della magnitudo (forse sottostimata, come si è detto), diventava essenziale operare al meglio per ridurre a zero la probabilità dell’evento crollo, all’interno di quella che era la sua vita operativa, con termine nel 2030. In questo senso dovevano operare la manutenzione, i controlli, le reti di sensori….

Gli esiti dei controlli e delle consulenze, da quello che se ne può sapere, contengono segnali allarmanti ma si muovono sempre in quella logica “conservativa” a cui si è accennato parlando degli impianti industriali a rischio. Non si parla mai esplicitamente del rischio crollo e gli esiti dei controlli tecnici sono formulati in modo da lasciare spazio, in fase di decisione, ad interpretazioni comunque interlocutorie, che porteranno semmai alla richiesta di ulteriori verifiche.

Saranno gli approfondimenti della Procura a dire se l’evento crollo non sia stato contemplato in quanto non ritenuto possibile in base alle valutazioni tecniche o se abbia giocato un ruolo anche la difficoltà, di cui si è detto, di pronunciarsi in tal senso a fronte di un’opera vitale.

    30 agosto 2018                                                                                                                Umberto Laureni

 

 

 

 

 

 

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