Lettera di SNOP al Papa del 24 giugno 2022
Santità,
siamo stati molto colpiti dalle Sue recenti parole sul tema degli infortuni sul lavoro, una pandemia che continuamente cambia e si sposta territorialmente in base all’andamento delle tecnologie, dell’economia, della politica, della finanza, del mercato globale… ma non accenna mai ad esaurirsi.
Come operatori della prevenzione (in gran parte professionisti del sistema sanitario pubblico italiano), che da anni cercano – anche con la loro attività associativa – di contribuire alla diffusione delle tutela della salute nei luoghi di lavoro, Le siamo profondamente grati per aver parlato di questo tema e senz’altro ancora di più lo sono, ovunque, i lavoratori, soprattutto quelli che hanno subito un infortunio grave o sono a rischio di subirlo, e i loro cari, soprattutto quelli che hanno perso un congiunto o si trovano vicini a una persona invalida che ha bisogno di assistenza e non può più contribuire al reddito familiare.
Ci permettiamo di portare alla Sua attenzione anche il tema delle malattie professionali: un problema parallelo a quelli degli infortuni sul lavoro, più spesso invisibile, più spesso dimenticato dalle istituzioni pubbliche, dalle organizzazioni sociali, dai mezzi di comunicazione di massa, perché (tolte le situazioni peculiari che mostrano molti casi gravi in un ristretto periodo di tempo in un’area territoriale definita e non troppo periferica nello scenario globale) non ha i caratteri del “fenomeno” eclatante che fa notizia, dell’evento percettibilmente violento che magari commuove (comprensibilmente) chi segue un notiziario televisivo o un’iniziativa locale di solidarietà. Ma le malattie professionali costituiscono in effetti un’enorme violenza, seppure “ad andamento lento” nel tempo, spesso così subdola che nemmeno chi la subisce si rende conto di essa e delle sue cause (magari pensa di essere malato “di una malattia comune”, per una “disgrazia” o una “fatalità” che poteva colpire chiunque, a prescindere dall’attività svolta). E per quanto si può capire laddove esistono “conteggi” credibili, il numero dei morti per malattie professionali è di molte volte superiore a quello dei morti per infortuni su lavoro.
Del resto salute e sicurezza nel lavoro sono due facce della stessa medaglia, e ancora, le ripercussioni del lavoro non sono rappresentabili solo con “la conta” degli infortuni e delle malattie: che dire del disagio, del malessere quotidiano, della fatica fisica e mentale, di aspetti diffusi come lo sfruttamento, il precariato, ecc., che quasi mai si cerca di “misurare” e, ancor più, di contrastare?
Tutto ciò riguarda il nostro paese ma – certo non Le sfuggirà – rappresenta una piaga globale, che riguarda tutto il pianeta, spesso sommersa ma proprio lì ben più grave e drammatica: nelle miniere dell’Africa o della Cina (e di Russia e Ucraina), nei laboratori del Sudest asiatico, nelle manifatture dell’India-Pakistan-Bangladesh, nelle acciaierie e fonderie del Brasile (e di Cina, Russia e Ucraina), nei campi del Sudamerica … Insomma, ci si ammala e si muore di lavoro ovunque nel mondo, in molta parte di esso con enormi, ancora più enormi, diseguaglianze, contrazione di diritti e ingiustizie sociali, molto al di là del “mangerai il pane col sudore della fronte”.
Non prenda le nostre parole come arroganti: non stiamo facendo lezione (certamente non la faremmo a Lei), esprimiamo solo una necessità profonda e urgente allo stesso tempo professionale ed etica, nella convinzione che oggi molto di più può fare un’autorità spirituale come il Papa, il quale è un’autorità morale e culturale anche nei confronti di chi non è Cristiano Cattolico, rispetto a ciò che possono produrre perfino un programma politico, un accordo di carattere generale tra le parti sociali o la legge di uno Stato. Nell’Unione Europea, per la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori abbiamo leggi con coperture pressoché esaustive e intrinsecamente da discrete a più che buone, ma esse rimangono spesso inapplicate o applicate solo formalmente; immaginiamo che possa essere così anche in altre parti del mondo “fortunate”. In altre parti “meno fortunate” semplicemente non esistono sistemi regolatori adeguati a tutelare sicurezza e salute dei lavoratori. Ciò crea una non-equità, o più semplicemente, un’iniquità che non si può tacere e tanto meno si può sopportare in silenzio.
E’ vero che molti non possono più svolgere l’attività che svolgevano prima o semplicemente non trovano più alcuna attività redditizia da svolgere se, a causa di un infortunio sul lavoro, hanno perso una mano o hanno subito delle fratture vertebrali che li costringono in un letto d’ospedale o su di una carrozzina a rotelle: ma può divenire difficile e perfino impossibile lavorare anche solo perché le spalle o le ginocchia o i polmoni non ci sostengono più e non siamo tra coloro che possono accedere allo smartworking o a una mansione puramente intellettuale. Un medico potrebbe continuare a fare il medico anche se faticasse a camminare o respirasse male, un lavoratore siderurgico o un muratore o un bracciante agricolo non potrebbero. Un operaio addetto alla movimentazione di carichi in un magazzino o in un porto, se ha diverse ernie lombari, non può più fare quel mestiere. Un’operaia cucitrice di tomaie, se ha una sindrome del tunnel carpale importante, non può più essere un’operaia cucitrice di tomaie. Un operaio cromatore allergico al cromo non può più fare l’operaio cromatore.
L’amianto è stato “bandito” nell’Unione Europea da diverso tempo (a iniziare dall’esperienza dell’Italia nel 1992) ed è sotto attento (almeno parziale) controllo in buona parte dell’America e dell’Oceania, ma in tante altre parti del mondo si continua, in condizioni spesso molto pericolose, ad estrarlo e lavorarlo ricavandone manufatti che prima o poi andranno manutenuti e infine demoliti, ricavandone rifiuti che andranno smaltiti. Pensiamo ad esempio alla massa immensa delle macerie prodotte dalla guerra in Ucraina anche come una fonte di fibre di amianto che, dai tetti in fibrocemento crollati e dalle coibentazioni industriali distrutte, andranno a disperdersi in aria quando, una volta raggiunta una qualche forma di pace o almeno di non-guerra, squadre di lavoratori andranno a movimentare le macerie con mezzi manuali, pale meccaniche, camion. E le malattie da amianto non sono affatto scomparse. Le asbestosi sono patologie tutt’altro che eccezionali, silenti, spesso non diagnosticate, anche quando non siano “lievi”, perché confusivamente classificate come fibrosi polmonari “idiopatiche”, di causa “inconoscibile”. I mesoteliomi e i carcinomi polmonari da amianto continuano a fare vittime in Asia, in Africa, in molte parti dell’America e perfino in quelle aree “più fortunate” che il problema l’hanno conosciuto e affrontato da maggior tempo.
Anche la silicosi non è affatto scomparsa. Ai giorni nostri è possibile ammalarsi di “silicosi acuta”, cioè di una silicosi grave e rapidamente progressiva, anche “sabbiando” dei jeans per dar loro un aspetto “invecchiato” e rendendoli quindi “alla moda”, oppure forando e sbordando con un frullino elettrico dei piani in “pietra artificiale” per le cucine componibili.
Ci si può ammalare di carcinomi del naso e dei seni paranasali lavorando il legno o il cuoio, ci si può ammalare di carcinoma della vescica tingendo tessuti e pellami con coloranti azoici che contengano amine aromatiche cancerogene, ci si può ammalare di leucemie e linfomi venendo esposti a vapori di particolari solventi o a particolari pesticidi usati in agricoltura …
Da un paio d’anni a questo panorama si è aggiunto il COVID-19, malattia che può essere contratta anche lavorando, non solo per chi presta servizio come operatore sanitario in un reparto di malattie infettive o in un laboratorio di analisi e ricerca, ma anche per chi semplicemente lavora in luoghi affollati e non controllati, da una fabbrica a un mezzo di trasporto collettivo a un mercato a un grande magazzino. È una malattia acuta, in una gran parte dei casi se ne guarisce: ma anche quando da una forma grave si guarisca, di essa restano strascichi che possono essere duraturi e invalidanti, in particolare per chi non ha opportunità adeguate di assistenza riabilitativa e magari dovrebbe tornare a svolgere una mansione pesante.
E’ chiaro che chi è immediatamente preoccupato, per sé e per i propri cari, per la possibilità della disoccupazione, della fame, della sete, della violenza che può venire dalla caduta dall’alto da un tetto o un ponteggio, come da un bombardamento, come da una deportazione in condizioni di schiavitù, non può trovare spazio, dentro di sé, per preoccuparsi di una sordità da rumore, di una lesione dei tendini delle spalle, di un’ernia dei dischi della colonna vertebrale, di una bronchite cronica, di una silicosi, di un’asbestosi, di un cancro che potrebbero arrivare tra dieci anni, tra venti, tra trenta … (ma, “se sei fortunato”, potrebbero anche non venire mai).
E’ chiaro, quindi, che quello delle malattie professionali può sembrare un problema “di lusso” rispetto alla povertà, alla fame, alla sete, alla “violenza ed alle iniquità del momento presente”: ma esso si presenta subito in tutta la sua vasta dimensione umana se viene alla mente che chi è malato (come chi ha subito un infortunio grave) e diviene invalido o semplicemente “non è più del tutto efficiente” (ad esempio perché deve assentarsi spesso dal lavoro per terapie, riabilitazione, convalescenza, riacutizzazioni) fa molta più fatica a trovare un’occupazione decente che gli consenta di non cadere nell’indigenza o di uscirne (di non essere, quindi, un working poor: situazione che è una doppia indecenza, per chi la subisce e per chi la impone ad altri).
La malattia professionale non banale, non autolimitantesi, non assistita da azioni istituzionali e comunitarie di sostegno è, in un circolo vizioso, a sua volta fonte di povertà, di ulteriore malattia e disabilità, di solitudine, di isolamento, di decadimento. La pandemia delle malattie professionali è quindi anche parte di una grande sindemia che colpisce con maggiore durezza tutti i generi di periferie e di margini. E’ una forma e una fonte di profonda non-giustizia.
Se chi è disoccupato, affamato, assetato e chi è nell’urgenza di salvarsi la vita o almeno l’integrità fisica e psichica “qui e ora” non può, perché di fatto proprio non può, occuparsi del futuro, non vuol dire che siano esentati dall’occuparsene gli Stati, le organizzazioni sociali, le comunità umane (grandi e piccole), tutte entità che, peraltro, possono farsi carico del futuro in modo convinto ed efficace solo man mano che si rendono esse per prime consapevoli, istruite, “forti” in ogni senso e soprattutto “giuste”. Se consapevolezza, cultura e “forza” delle collettività si realizzano, se si realizza una giustizia sostanziale perché non vale solo per chi è protetto da maggiori garanzie, a un certo punto anche le singole persone che più si trovano ai margini della società potranno possedere con sé e in sé le capacità attentive e gli strumenti pratici per assumere la cura di sé stesse, per mantenerla senza cedere di fronte al primo ostacolo, per guardare avanti nel tempo, anche oltre la propria generazione.
Ma gli Stati, le organizzazioni sociali, le comunità più facilmente si attiveranno e meno facilmente si dimenticheranno (tra le tante altre cose che li assillano) della pandemia delle malattie professionali, come di quella degli infortuni sul lavoro, se il Papa dirà loro di non trascurare i fratelli che si sono infortunati o si sono ammalati o “semplicemente” sono a rischio di infortunarsi o di ammalarsi per il lavoro che svolgono….e naturalmente di fare il possibile, tutti insieme, perché queste cose non avvengano.
Ci perdoni se ardiamo dirLe tutto questo: non possiamo farne a meno. Nel ringraziarLa sinceramente della Sua attenzione, Le saremo ulteriormente grati dal profondo del cuore per ogni pensiero, ogni parola, ogni preghiera che vorrà rivolgere su questi temi nel futuro.