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Pensano che le informazioni sullo stato di salute delle persone e delle comunità, sulle malattie e gli infortuni, sulle cause di entrambi...costituiscano una premessa indispensabile per fare prevenzione;
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Non hanno mai smesso di credere nella necessità di un sistema pubblico di prevenzione diffuso in tutto il paese, in grado di garantire il diritto alla salute e di contrastare le diseguaglianze.
Pensano che la solidarietà e la partecipazione siano ancora valori indispensabili.

I 60 anni del T.U. sull’assicurazione obbligatoria contro infortuni sul lavoro e malattie professionali

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Tempo di lettura: 4 minuti

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A margine di un editoriale del dott. Raffaele Guariniello

L’11 luglio scorso il dr. Raffaele Guariniello ha pubblicato sul Quotidiano IPSOA un editoriale sul 60° genetliaco del DPR 1124 del 30 giugno 1965, quello che emanava un nuovo “Testo Unico” articolato e di ampio respiro riguardo all’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Con la consueta arguzia, il dr. Guariniello chiosa nel titolo“60 anni, e non li dimostra” e nell’incipit “Quelle due parole “assicurazione obbligatoria” sembravano allontanarci. Ma fummo colpiti dalle parole successive “malattie professionali”. Il “noi” della frase precedente si riferisce ai “magistrati delle preture penali più grandi, da Torino a Milano, da Roma a Napoli”.

 

Anche chi si occupa direttamente di prevenzione (medici del lavoro, ma anche assistenti sanitari, tecnici della prevenzione, igienisti industriali in genere, etc.) potrebbe sentirsi in prima battuta distante da un approccio intitolato all’assicurazione obbligatoria del danno da lavoro. Che cosa importa a noi (“noi” in questo caso riferito a chi si occupa direttamente di prevenzione) di pratiche INAIL, di contenziosi civili e in generale di questioni di “vile denaro”? Intanto si può dire, citando a memoria Marcello Marchesi, “perché dare del vile al denaro, con tutto il bene che ci ha fatto?”.  E poi non va dimenticato che dietro quelle questioni di “vile denaro” c’è l’indennizzo o meno, vale a dire il risarcimento o meno, di chi un danno da lavoro l’abbia realmente subito e con quei soldi magari può permettersi di rimettere in equilibrio un bilancio personale / familiare compromesso da una riduzione delle sue capacità di lavoro e di guadagno.

 

Quando il Servizio Pubblico si occupa di accertare le cause (per essere più raffinati: la rete dei nessi di causa) di una tendinopatia della cuffia dei rotatori, di un’ernia discale lombare, di una fibrosi polmonare, di un mesotelioma pleurico, di un carcinoma sino-nasale… si imbarca in un’operazione complessa dai risvolti molteplici e ramificati: spesso alcuni di essi soverchiano gli altri (ad esempio, quando le ricadute di Polizia Giudiziaria assorbono molte energie e pongono diversi vincoli), spesso molti di questi rami si seccano ovvero rimangono secchi ab initio. Quello del risarcimento economico del lavoratore malato può seccare / rimanere secco semplicemente perché nessuno di quelli che “trattano” istituzionalmente il caso si occupa di redigere e inviare all’INAIL il primo certificato medico di malattia professionale: con il che si crea un’enorme disparità tra un lavoratore e l’altro, perché qualcuno comunque se la cava trovando assistenza presso un Patronato oppure presso il Medico di Medicina Generale di fiducia etc., altri quest’assistenza non ce l’hanno e/o non sanno di averla e non se la cercano. E in ogni caso, chi assiste il lavoratore può essere più o meno esperto, essere più o meno attento, andare più in profondità ovvero rimanere alla superficie della ricerca delle cause occupazionali di una malattia: e qui c’è una seconda fonte di disparità, che si può riassumere nell’espressione: “il destino del riconoscimento, o meno, di una malattia che sia stata effettivamente causata o concausata da esposizioni lavorative è fortemente in funzione di dove abiti e di chi ti segue”.

 

Il tema dell’equità che ha attraversato (pur senza ricevere tutta l’attenzione meritata) l’intera architettura del Piano Nazionale della Prevenzione 2020-25 può quindi essere legittimamente riportato anche ai diritti dei lavoratori affetti da malattie da lavoro.

Il che porta a riesumare l’attenzione su due norme storiche, l’una precedente (il “Testo Unico” sulle malattie professionali del 1952) e l’altra (lo “Statuto dei Lavoratori” del 1970) successiva al DPR 1124 del 30 giugno 1965 e alla variegata documentazione ad esse relativa di cui si riportano, di seguito, alcuni passaggi di rilievo.

Hanno 73 anni le prime tre dichiarazioni presso la Commissione parlamentare e 54 anni le altre due, tratte da una tavola rotonda del 1971 presso ACLI: ma non li dimostrano.

 

Roberto Calisti

 

XI COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI Seduta del 16 luglio 1952 DISCUSSIONE E APPROVAZIONE del disegno di legge “Modificazioni alla tabella delle malattie professionali allegata al regio decreto 17 agosto 1935, n. 1765 (2786)

 

COPPA Ezio, Relatore. (…) Prima di ogni altro bisogna precisare che per conseguenza diretta di una malattia indotta da una qualsiasi sostanza di quelle comprese nel nuovo elenco si intende qualsiasi manifestazione morbosa che insorge nel lavoratore soltanto in quanto e per il fatto di essere stato colpito dall’azione dannosa di quella sostanza. La qual cosa vuol dire che qualsiasi processo morboso, che sia condizionato dal fatto che un operaio è stato colpito da una tecnopatia, è tutelato dal presente disegno di legge. Ecco il valore cautelativo nei confronti del lavoratore. (…)”

 

DI VITTORIO, Giuseppe. ” (…) Vorrei perciò augurarmi che gli onorevoli colleghi della maggioranza e lo stesso Governo, tenendo presente la lealtà che ci anima, vogliano accogliere una nostra richiesta non ancora soddisfatta: estendere la legge ai lavoratori dell’agricoltura.”

 

DI VITTORIO, Giuseppe. (…) Domando, pertanto, e spiego con ciò mia interruzione alla brillante relazione dell’onorevole Coppa, se non sia il caso di sopprimere l’elencazione. Mi sembra che potrebbe essere sufficiente dire: “quando è accertato che la malattia ha il carattere professionale previsto dalla legge”.” 

 

 

  ACLI – TAVOLA ROTONDA “STRUMENTI PER LA DIFESA DELLA SALUTE DEL LAVORATOIRE IN FABBRICA” del 30 marzo 1971 

BERLINGUER, Giovanni. (…) Nel 1970 – è stato dichiarato alla conferenza stampa dell’Inca – gli infortuni hanno raggiunto un milione e 650 mila. Le cifre sono immutate negli ultimi anni per quanto riguarda gli infortuni e le malattie professionali; sono crescenti per quanto riguarda le assenze dal lavoro. Queste, pur non essendo tutte attribuibili a malattie in senso stretto, sono tuttavia un indice o di fenomeni che stanno al limite tra la malattia e l’intollerabilità della fatica dell’operaio; oppure un indice di un “rifiuto del lavoro” che ha alle sue origini una sensazione di insopportabilità dell’attività all’interno della fabbrica; comunque, in gran parte, sono malattie vere e proprie. (…)

 

ROSATI, Domenico. (…) Ci siamo trovati d’accordo – io credo – anche per questo approccio induttivo nella convinzione che se si parte mettendo al primo posto l’uomo, e non ad esempio la produzione, le conseguenze non possono non essere obbligate anche a livello di giudizio sul sistema economico. Può essere un giudizio più o meno motivato, più o meno esplicitato, ma esso non è positivo ed impone anche una ricerca per il cambiamento. Su questo, al di là di differenziazioni che pur emergono dalla discussione, ci siamo trovati tutti d’accordo. Quanto all’oggetto di quest’ultimo “giro di tavola” – vale a dire il problema delle connessioni e delle interazioni tra la difesa della salute in fabbrica e fuori della fabbrica – non vorrei sottolineare le differenze di accentuazione che si sono manifestate. Vorrei invece cercare di circoscrivere una piattaforma di indicazioni sulla quale, almeno a mio avviso, esiste consenso tra di noi.  E credo di poterlo fare nei termini seguenti: siamo tutti dell’avviso che la riforma sanitaria vada intesa in senso dinamico. Che vuol dire? Che non deve essere assolutamente essere privilegiato il momento istituzionale, quasi che bastasse cambiare alcune istituzioni per raggiungere l’obiettivo. Occorre invece una dilatazione ed una crescita della presa di coscienza dei cittadini e dei lavoratori che deve essere costituita sulla partecipazione di larghe masse umane. (…)

 

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Una risposta

  1. Bell’articolo, chiaro, conseguente. Mi chiedo se a quella frase “in ogni caso, chi assiste il lavoratore può essere più o meno esperto, essere più o meno attento, andare più in profondità ovvero rimanere alla superficie della ricerca delle cause occupazionali di una malattia: e qui c’è una seconda fonte di disparità, che si può riassumere nell’espressione: “il destino del riconoscimento, o meno, di una malattia che sia stata effettivamente causata o concausata da esposizioni lavorative è fortemente in funzione di dove abiti e di chi ti segue” non potrà in futuro dare soluzione grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale in Medicina del Lavoro. Ci stiamo lavorando in vista di un e-book della CIIP e molta farina del sacco SNOP !

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