Testo Sappiamo ancora troppo poco per ragionare sui motivi che hanno causato l’esplosione al deposito ENI di carburanti di Calenzano, a pochi chilometri da Firenze. E non aggiungeremo noi ipotesi a quelle che già vengono da più parti discusse, anche se spesso paiono verosimili e fondate sia rispetto agli elementi diretti che quelli a monte, di contesto o modulatori.
L’impianto dell’ENI dove martedì scorso un’esplosione ha ucciso 5 lavoratori e ne ha feriti 26, alcuni in maniera molto grave, è uno dei quasi mille siti industriali italiani considerati a rischio di incidente rilevante. Più esattamente è uno 508 siti che la “direttiva Seveso” classifica di “soglia superiore” proprio per la dimensione e gravità dei rischi prospettati e che sono soggetti quindi a strettissime norme, procedure e controlli,
Quello che è accaduto è una piccola parte di quello che avrebbe potuto accadere e che costituisce solo uno degli scenari possibili di incidente, per i quali proprio la normativa impone ai gestori di quelle attività una lunga e rigida serie di misure di prevenzione e, altrettanto, di emergenza sia per l’interno che per l’esterno, per la tutela della popolazione e dell’ambiente al di fuori. Nonostante i vasti danni che l’esplosione ha comunque provocato dentro e fuori, l’evento si è principalmente caratterizzato come un gravissimo infortunio multiplo sul lavoro, che – ancora una volta e significativamente – ha coinvolto in prevalenza lavoratori che operano nella zona di interfaccia tra attività proprie dell’impresa e quelle di altri, in questo caso autotrasportatori esterni.
Per le informazioni che si hanno, parrebbero essere stati scongiurati i disastrosi effetti “esterni”, anche se l’estensione dell’area interessata e la presenza in essa di alcuni insediamenti critici hanno testimoniato l’entità del rischio esistente e confermato le preoccupazioni già avanzate. Forse questo fatto dovrebbe indurre a ripensare l’area stessa, come diversi soggetti anche di recente hanno richiesto.
C’è che siamo un’altra volta qui a piangere morti e a preoccuparci dei tanti feriti in un evento gravissimo che avviene sul lavoro, in un Paese che sta passando impotente e sfiduciato da un caso ad un altro, periodicamente, accompagnato dai soliti immancabili riti, alcuni anche irrinunciabili ma spesso di vuota convenienza. Non potendoci esimere dal cordoglio e dal dolore, affinché anche il nostro lamento non rischi di ricadere tra questi riti, vorremmo appellarci alla volontà di reagire, proseguendo l’impegno nella prevenzione.
Qui però servono a poco le immancabili promesse (immancabilmente tradite) e meno ancora gli interventi normativi sbagliati o di facciata quali quelli che il governo ha allestito negli ultimi tempi (per tutti, la patente a crediti!), mentre si lasciano invece intere questioni disattese (quali l’adozione di una strategia dedicata, il funzionamento degli organismi di regia, il reale rafforzamento degli organi di prevenzione e di controllo, gli investimenti in sicurezza) o se ne assumono altre di segno opposto (quali le norme sugli appalti o i messaggi sulla semplificazione dei controlli e sul non disturbo di chi vuole fare).
No, qui non si tratta di proporre nuove normative o prospettare altre soluzioni creative, tantomeno se inutilmente burocratiche, ma di affrontare con responsabilità e determinazione le numerose questioni aperte in tema di prevenzione e di cultura della prevenzione.
Quando gli infortuni mortali si succedono con questa gravità e frequenza è segno di una patologia di sistema.
Riprendiamo alcuni commenti che abbiamo pubblicato nello scorso agosto sul D.Lgs. 103, perché pensiamo siano utili per una analisi che non banalizzi, come spesso avviene, le dinamiche di infortunio. Dicevamo che il sistema normativo è orientato sempre più verso sistemi di autocontrollo e autocertificazione della gestione dei rischi, riducendo la sicurezza ad adempimenti burocratico-formali, spesso delegati a consulenti.
Questo modello mostra i suoi colpevoli limiti ogni volta che avviene un infortunio “perché non sono state rispettate le procedure previste”, cioè quasi sempre. Come dire che il processo di lavoro era pensato bene ma chi lo ha eseguito ha sbagliato. Bisognerebbe invece urlare a gran voce che se un processo di lavoro viene sistematicamente modificato o disapplicato è un pessimo processo di lavoro.
Bisognerebbe gridare che chi ha ritenuto sufficiente redigere dotti documenti certificativi di qualità e sicurezza sul lavoro, ma non ha fatto la più semplice operazione di responsabilità prima ancora che di prevenzione, quella di conoscere il lavoro concreto svolto dai propri dipendenti, non può ritenersi sollevato dalla colpa del disinteresse per la loro salute e sicurezza.
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