Siamo arrivati al punto in cui sembra irrealistico anche solo auspicare la pace (specularmente accettando il tempo di guerra come uno stato stazionario/endemico, non più come un periodo limitato/un’epidemia), tanto che da parte di una grande organizzazione internazionale come l’OMS non si può che limitarsi ad invocare “pause umanitarie” solo per poter vaccinare una popolazione assediata https://www.who.int/news/item/16-08-2024-humanitarian-pauses-vital-for-critical-polio-vaccination-campaign-in-the-gaza-strip.
La “normalità” dello stato di guerra e una qualche sorta di inconcepibilità dello stato di pace (come se fosse questo a costituire una stranezza) man mano divengono percezione collettiva, assuefattivamente alimentata non solo dalla mancanza di notizie vere e proprie (nel senso di novità eclatanti) su eventi bellici che si protraggono per mesi e anni senza che se ne intraveda il termine, ma anche dalla mancanza di consapevolezza degli “effetti collaterali” di lungo termine della guerra. Questi divengono invece pressoché intuitivi non appena rivolgiamo ad essi uno sguardo non distratto, già solo cercando e valutando materiali affidabili liberamente reperibili in rete: bastano questi a farci capire che la guerra, anche se oggi non impedisce di svolgere le nostre attività quotidiane e di fare i nostri programmi per il futuro, in effetti mette in discussione l’intera “one health” globale. La guerra è oggi distante solo se vogliamo girare lo sguardo altrove. Occorrono quindi, in sinergia, tanto un’epidemiologia della guerra sistematica e partecipata quanto una diffusione, a livello di popolazione, di conoscenze chiare sui disastri che guerre, solo in superficie a carattere locale, generano su scala generale e su tempi lunghi, come treni d’onda attivati da pesanti sassi nell’acqua che ci serve per vivere.
Roberto Calisti