NOI SIAMO
QUELLI CHE...

Pensano che le informazioni sullo stato di salute delle persone e delle comunità, sulle malattie e gli infortuni, sulle cause di entrambi...costituiscano una premessa indispensabile per fare prevenzione;
Offrono alle istituzioni, ai corpi intermedi della società...valutazioni, proposte, azioni di informazione e formazione con l'intento di partecipare...;
Non hanno conflitti di interesse...per cui sono liberi di dire ciò che pensano
Comunicano in modo trasparente...
Non hanno tra gli obiettivi prioritari la difesa di categorie o di singole figure professionali...
Cercano un continuo confronto con le altre Società scientifiche che operano nel mondo della prevenzione...
Non hanno mai smesso di credere nella necessità di un sistema pubblico di prevenzione diffuso in tutto il paese, in grado di garantire il diritto alla salute e di contrastare le diseguaglianze.
Pensano che la solidarietà e la partecipazione siano ancora valori indispensabili.
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Dalla difficile nascita al declino della prevenzione nel SSN

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Tempo di lettura: 6 minuti

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Dopo i materiali dell’intervento di Alberto Baldasseroni, con piacere pubblichiamo ora una sintesi, che lei stessa ci ha fornito, dell’intervento che Pina Bosco ha tenuto nella giornata dedicata a Giovanni Berlinguer il 22 maggio scorso (“Giovanni Berlinguer. Un protagonista delle politiche della salute in Italia. A 100 anni dalla nascita”) al circolo LASS-PD di Roma.

 

 

Ho conosciuto Giovanni nella seconda metà degli anni 70, quando affrontavo gli ultimi anni del corso di laurea in Medicina presso la Sapienza e, come dice Alberto, all’interno del collettivo di medicina ci ponevamo il problema di come far crescere i temi della prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro anche dentro il corso degli studi, in cui l’attenzione era sempre e soltanto focalizzata sugli argomenti di diagnosi e cura.

L’incontro con Giovanni nel suo corso di Fisiologia e Igiene del Lavoro ha subito rivelato la sintonia con il nostro modo appassionato di vedere il mondo della scienza e della politica e ci ha dato molti strumenti per proseguire la nostra strada. Ci confermava la priorità di garantire la salute come scelta di libertà per gli individui garantita dalla Costituzione, di studiare le cause sociali delle malattie per poterle contrastare, e che la prevenzione fosse la via maestra.

Alcuni di noi sostennero insieme l’esame di Giovanni, ricordo ancora l’ansia per il giudizio del grande che avevo di fronte. Alcuni scelsero di laurearsi avendo lui come relatore, io rimasi all’Istituto di Igiene presso il quale ero interna e dove presi poi la mia prima specializzazione in Sanità Pubblica. Dopo le esperienze di fabbrica e di 150 ore la seconda non poteva che essere quella in Medicina del Lavoro, e la tesi di specializzazione la portai avanti ancora presso la Cattedra di Giovanni, con Irene Figà Talamanca sua storica assistente che poi gli è succeduta nella Cattedra.

La strada per molti di noi era segnata quindi da quella decisione di impostare la nostra professione sulla prevenzione, di andare all’origine della malattia, in particolare nell’ambiente di lavoro e di riuscire a individuarne ed eliminarne le cause, di confrontare lo stato di salute degli operai con quello di categorie privilegiate, come Giovanni ci aveva insegnato.

In tanti scegliemmo la medicina del lavoro come terreno privilegiato, all’interno del quale i lavoratori scendevano in campo per la tutela della propria salute e noi potevamo essere i loro interlocutori tecnici, capaci di ascolto e di analisi, ma anche di soluzione condivisa dei problemi. Il modello era quello dei servizi di medicina del lavoro (SMAL) nati in Lombardia alla fine degli anni 60 proprio da un approccio dei giovani medici all’esperienza di lotta per la salute nelle grandi aziende del nord e nel sindacato che iniziava a liberarsi dall’idea che a maggior rischio dovesse corrispondere maggior compenso (la salute non si vende).

In quest’ottica fummo felici di veder nascere il SSN, nel quale la prevenzione era uno dei pilastri fondamentali ed il disegno dei servizi a questa dedicati era

strettamente legato all’esperienza dei movimenti per la salute. Questo accadeva proprio mentre le lauree erano in dirittura d’arrivo e ci vedevamo come i futuri operatori pubblici della prevenzione.

Nel giro di pochi anni, però, ci rendemmo conto di quanto fosse difficile (Giovanni ci aveva avvisati) passare dalla promulgazione della legge alla sua completa attuazione, soprattutto in ambito di prevenzione. Lui prima di noi, ovviamente, vide nei ritardi attuativi e nel definanziamento i problemi che avrebbero colpito il pilastro della prevenzione.

Invertita quella tendenza, e iniziata la linea della decrescita, forse fatalmente è andata in difficoltà una disciplina basata proprio sulla tutela dei lavoratori e in parte sostenuta dalla forza del lavoro organizzato. Chi è rimasto, come me, a lavorare a Roma, ha vissuto da subito i ritardi attuativi della 833 in ambito di prevenzione, prima di tutto facendo i conti con una Regione in cui già sussisteva un blocco delle assunzioni in sanità e fu già difficile l’accesso ai servizi di prevenzione pur in presenza di carenze macroscopiche di tutte le figure professionali, mentre in altre Regioni i Servizi crescevano per quantità e qualità di personale e risorse.

Nonostante i quasi 10 anni trascorsi dalla 833, al momento del mio ingresso nel servizio pubblico di prevenzione questo era ancora da costruire, anche perché il personale degli enti disciolti tardava ad essere decentrato nelle ASL come prevedeva la legge, e in qualche caso non sarebbe mai transitato. Costruire un servizio, anche con poche risorse, per chi è giovane e motivata, è comunque un’esperienza stimolante, e lo è anche sedere ai tavoli dove si prendono le decisioni sulla salute pubblica, con i sindaci e i tecnici dei comuni, o nei comitati di gestione delle USL. E sì, perché allora chi si occupava di salute pubblica aveva uno spazio di discussione e partecipazione.

Di lì a pochi anni, però, la progressiva perdita di tutele e la frammentazione del lavoro hanno favorito una riduzione della spinta dal basso che aveva caratterizzato la fase della riforma ed il passaggio dalle resistenze attuative alla vera controriforma. Le nuove Aziende sanitarie sancivano il passaggio da un sistema partecipato, attraverso i Comuni e i Comitati di gestione, ad un sistema monocratico in cui anche la democrazia interna è stata praticamente azzerata e la partecipazione, sia dei cittadini che dei professionisti, resa del tutto formale. La prevenzione è diventata, nelle nostre aziende pubbliche come in molte aziende private, qualcosa in più, rispetto al core business rappresentato dalla cura, quasi un lusso che non ci si può permettere. Le norme di derivazione europea sono state interpretate in modo formalistico più che sostanziale, per cui quello che conta è la documentazione, la certificazione più che la buona organizzazione della sicurezza. In sostanza anche il nostro servizio diventava qualcosa di accessorio, quasi un corpo estraneo che per di più esponeva le direzioni aziendali a rischio di sanzione. Il controllore, non il mancato rispetto della legge.

Nonostante fosse naturale a quel punto la scarsa valorizzazione di servizi scomodi e forse troppo autonomi nell’economia aziendale e nel trionfo della tecnocrazia, con i discorsi sull’efficientamento e la governance, abbiamo fatto storiche battaglie per mantenere un assetto funzionale ai servizi e continuato a produrre storici interventi di prevenzione, coinvolgendo piccole imprese e lavoratori che venivano stimolati ad autovalutarsi e messi in aula a discutere sull’origine dei loro stessi infortuni. Finché si è potuto. Perché man mano che il personale in uscita non veniva rimpiazzato e venivano anche a mancare le figure storiche di operatori di diversa qualificazione abituati a lavorare in modo interdisciplinare si assisteva ad un impoverimento ed all’impossibilità di progettare interventi “di comparto” per affrontare invece la vigilanza obbligata, quella richiesta direttamente dai lavoratori

o delegata dalla Procura. Si assisteva in pratica ad un appiattimento sulla repressione anziché ad interventi di prevenzione, e qui torniamo alle origini, allo scopo stesso dell’inserimento della prevenzione nella 833 che veniva pesantemente messo in discussione, e non perché il modello non abbia funzionato, ma perché sono mancate le risorse. Forse conviene così. Meglio qualche intervento repressivo che mettere in discussione l’organizzazione del lavoro. Questa è la mia ipotesi, sarebbe comunque da discutere, dato l’esito che stiamo vedendo sugli infortuni mortali.

La creazione di ASL con territori infiniti inoltre ha portato tra l’altro ad una mancata presenza territoriale, la cui responsabilità veniva poi regolarmente attribuita agli operatori stessi e che di certo non favorisce la partecipazione di cittadini e lavoratori, ma neppure di quelli che oggi si definiscono “portatori di interesse”, enti, associazioni e terzo settore.

Per concludere vorrei sottolineare come siano cresciute, nel corso degli anni, le differenze di linguaggio sugli argomenti della prevenzione in sanità pubblica.

  • Il Servizio Sanitario è diventato Sistema: non più vicino alle persone, ma altrove
  • Le AUSL sono diventate ASL: aziende, distanti dai territori
  • Gli Operatori della Prevenzione sono diventati Ispettori, sottolineandone le caratteristiche di repressione e controllo
  • L’interdisciplinarietà è scomparsa dal linguaggio comune, come la possibilità di affrontare rischi complessi integrando diverse discipline
  • Gli Interventi di Prevenzione, o Piani Mirati ai rischi, o Piani di Comparto, sono stati tutti costretti dentro il termine generico di Controlli
  • La medicina del Lavoro è scomparsa dietro il termine “competente” che non ho mai capito e amato. Peraltro, il medico competente oggi è una figura fragilissima e isolata.

Dovremmo riprenderci le parole, ma soprattutto restituirle a chi lavora perché soltanto la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, ma anche degli stessi professionisti che a loro volta perdono la voce, se non quella delle corporazioni. È quello che dobbiamo a chi oggi celebriamo e ci ha insegnato la prevenzione.

La discussione sugli infortuni (e le malattie da lavoro) che oggi si riduce a discorsi generici e ideologici che esitano comunque in “più controlli”, senza peraltro riuscire ad attuarli, deve tornare ai dati che ci sono e vanno utilizzati e alle storie delle persone che vanno raccontate ed ascoltate, come nel lavoro di DORS, dove oggi “Storie di infortuni” è diventato anche un podcast.

La partecipazione si può stimolare ad esempio anche attraverso interventi formativi veri, non condotti con l’offensiva modalità di mettere in aula degli adulti assoggettandoli a lezioni magistrali sulle leggi e sui rischi generici e ignorandone sistematicamente l’esperienza. Ma di questo parleremo a lungo.

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