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Documentazione insufficiente come causa del mancato riconoscimento delle malattie professionali

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Un intervento di Maurizio Mazzetti

Ringraziamo Maurizio Mazzetti per questo intervento che noi stessi avevamo sollecitato e che offre una lettura con punti di vista talvolta differenti rispetto a quelli dei tre precedenti articoli pubblicati ed anche argomenti ulteriori che riteniamo necessario considerare.

Sul sito della Società Nazionale Operatori della Prevenzione è comparso lo scorso 8 ottobre un articolo di Giovanni Falasca sulle percentuali di riconoscimento delle malattie professionali in Italia che intendo ora commentare, ma con alcune premesse. Le denunce di malattia professionale, come è noto, crescono numericamente in maniera inarrestabile almeno dall’inizio del millennio, in controtendenza a una progressiva diminuzione degli infortuni in occasione di lavoro (ma non di quelli in itinere, né di quelli mortali). Ritengo che questo incremento dovrebbe essere oggetto di maggiore attenzione, poiché il fenomeno è insufficientemente studiato o quantomeno latitano le strategie per prevenirlo. Peraltro, quanto a tali strategie non si può però dimenticare che le malattie professionali – tabellate o meno – sono diverse per genesi, manifestazioni e gravità, e che ciascuna di esse meriterebbe analisi e interventi appositi; e osservo che ormai la stragrande maggioranza delle malattie professionali denunciate sono quelle cosiddette non tabellate (tant’è vero che la stessa INAIL nelle statistiche considera unitariamente tabellate e no). E ancora, vi sono malattie tabellate, come quelle da movimenti ripetuti e posture incongrue, ormai e non da oggi quelle relativamente più numerose, nelle quali l’istruttoria non può che svolgersi come se fossero non tabellate. E ricordo che in queste ultime, a rigor di legge, l’onere della prova sull’origine professionale ricade su chi denuncia. Nei fatti, l’INAIL applica invece quello che un giurista amministrativista definirebbe soccorso istruttorio, quando non va oltre, svolgendo essa stessa l’istruttoria per la quale denuncia e relativo certificato medico non sono sufficienti.

Ora, l’articolo di Giovanni Falasca sottolinea una diminuzione della percentuale di riconoscimento nell’ultimo quinquennio; ritengo però che il fenomeno vada indagato meglio ed in ogni caso che le cause individuate (che siano condivisibili o meno, e che peraltro andrebbero relazionate a ogni tipo di malattia) restano le stesse nel tempo e non danno ragione della diminuzione. Per assurdo, potrebbe trattarsi semplicemente di una diminuzione di certi rischi non più presenti, terminata l’esposizione e decorso l’eventuale periodo di latenza.

Una prevenzione efficace, poi una esaustiva istruttoria sull’origine professionale delle patologie denunciate, scontano infatti tutta una serie di elementi assenti negli infortuni (che non a caso presentano percentuali di riconoscimento incomparabilmente più elevate), elementi che mi permetto sinteticamente di ricordare per quanto dovrebbero essere ben noti:

  • Le malattie professionali hanno più o meno lunghi tempi di latenza e possono insorgere anche quando l’esposizione al relativo rischio è cessata, pure da molti anni; il che accade tipicamente se la persona ha cambiato lavoro. Ma il più delle volte i rischi pregressi, e la relativa eventuale esposizione, sono impossibili da ricostruire adeguatamente ora per allora: e ciò sia per cessata attività delle precedenti aziende, sia per le modifiche intervenute nel frattempo nella medesima attività produttiva. Modifiche quali sostanze, processi, uso dei DPI o altri sistemi di protezione collettiva, tipologia di macchine/attrezzature, sistemi organizzativi, monitoraggi e normative. Ad esempio, le dermatiti e le malattie professionali da uso di vernici sono pressoché sparite grazie all’evoluzione normativa, tecnologica e organizzativa; drastica è la diminuzione delle ipoacusie, come delle malattie professionali da esposizione alla silice libera, per non parlare di quelle da esposizione all’amianto che però scontano i lunghissimi tempi di latenza dopo l’esposizione cessata anche trenta o quaranta anni prima. E a complicare ulteriormente l’indagine ci sono la precarizzazione del lavoro, il proliferare di appalti e subappalti più o meno leciti, il lavoro in somministrazione e via “flessibilizzando”, con il dovere di sicurezza dei datori di lavoro che si sfilaccia e spezzetta.
  • Per l’INAIL l’esposizione professionale a un rischio lavorativo (valutando durata e intensità dello stesso) è solo una delle cause della patologia denunciata, purché detta causa sia efficiente ai fini del riconoscimento del carattere professionale della patologia e con eventuale successivo indennizzo. Accanto ai rischi professionali coesistono infatti, nella genesi delle patologie, concause quali fattori ambientali (ad esempio, inquinamento, rumore, stress), abitudini personali (es. fumo, uso di alcol e altre sostanze psicotrope, pratica della caccia, altre attività extra-lavorative, alimentazione); sono diverse le vulnerabilità individuali anche a parità di esposizione; e, da ultimo, l’allungamento della vita lavorativa comporta che insorgano patologie fisiologicamente legate all’invecchiamento (ad esempio, ipoacusie, sindromi del tunnel carpale, affezioni all’apparato muscolo-scheletrico) che si sommano ai rischi professionali ma anche no, quando l’attività lavorativa prosegue. Questi elementi concorrono quindi alla malattia professionale, tale finché però essi non sono gli unici a determinarla.

Tornando al riconoscimento delle malattie professionali denunciate, Giovanni Falasca, nella pur accurata e stimolante (specie per le suggestioni su esperienze estere) disamina della materia, sembra talvolta non dare il giusto peso agli elementi sopra indicati. Individua comunque, in maniera totalmente condivisibile, una serie di punti critici, che riprendo:

  1. qualità e completezza del primo certificato (medico di base, medico del lavoro, medico della ASL);
  2. presa in carico della pratica da parte del patronato;
  3. valutazione medico-legale dell’INAIL;
  4. eventuali indagini dei Servizi di Prevenzione delle ASL;
  5. discussione in sede di collegiale;
  6. assistenza nel contenzioso davanti al giudice del lavoro;
  7. pressioni esercitate dalle aziende;
  8. successivi gradi di giudizio.

Quanto alle innegabili differenze territoriali dei riconoscimenti, esse si verificano perché nei diversi territori gli elementi sopraelencati si presentano con efficacia e intensità diverse, e perché magari sono diversi anche i relativi rischi nonché le possibili concause ambientali. Interessanti spunti di riflessione sul punto, meritevoli di approfondimento, offre peraltro l’articolo “Chi denuncia le malattie professionali” di Leopoldo Magelli, sul quale magari tornare in altra occasione.

Ciascuno degli elementi sopra elencati meriterebbe un approfondimento specifico che questo mio modesto contributo, basato soprattutto sull’esperienza pratica, non può fare. Tuttavia, la conclusione di Giovanni Falasca è che la percentuale di riconoscimento, e quindi la tutela, è insufficiente, in quanto (faccio una sintesi che spero corretta):
a) esisterebbe una “asimmetria” (informativa? operativa?) tra il lavoratore e l’ente assicuratore INAIL e datore di lavoro (posti sullo stesso piano);
b) una bassa percentuale di riconoscimento minerebbe le politiche di prevenzione, perché difficilmente le aziende investirebbero in misure di riduzione del rischio se pochi sono i riconoscimenti ed ancora meno gli indennizzi quantitativamente significativi;
c) esisterebbe uno “squilibrio normativo” nel rapporto tra lavoratore e INAIL, la quale agirebbe come controparte del lavoratore, il quale per contro resterebbe privo di un soggetto istituzionale che lo segua fino alla conclusione dell’istruttoria. Gestendo l’INAIL contemporaneamente valutazione ed erogazione degli indennizzi, mancherebbero contrappesi a favore del lavoratore, come invece accadrebbe nell’assicurazione RC Auto, o quali sono istituiti in altri paesi (peraltro con sistemi assicurativi diversi);
d) il lavoratore sarebbe poi solo di fronte ai datori di lavoro e all’INAIL.

Occorrerebbe quindi riequilibrare il procedimento decisionale introducendo contraddittori obbligatori sui modelli tedesco e francese a cura di un soggetto neutrale, perché i medici INAIL non potrebbero continuare a essere gli unici a giudicare.

Ora, e non solo per “patriottismo d’organizzazione” in qualità di ex dirigente (quasi 23 anni) all’INAIL, ferma restando la condivisione di una parte dell’analisi, dissento radicalmente dalla ricostruzione del contesto normativo e operativo, nonché dalle conclusioni e dai rimedi prospettati. E preciso, peraltro, di non condividere affatto la consueta spiegazione, troppo ottimista, incompleta e troppo politicamente orientata, che l’INAIL dà dell’aumento delle denunce delle malattie professionali, come ancora una volta riporta la Relazione annuale 2024 dell’INAIL stessa. Leggiamo a pagina 11: “L’incremento delle denunce di malattie professionali non è necessariamente da ascrivere a un peggioramento delle condizioni di lavoro. Al contrario, può essere attribuito a una accresciuta informazione da parte dei lavoratori e dei medici certificatori in merito alle coperture assicurative e all’ampliamento nel tempo del novero delle patologie riconoscibili. Tale fenomeno può costituire, inoltre, un importante indicatore di una più efficace strategia di prevenzione, poiché la denuncia tempestiva, con l’approfondimento dei sintomi e dell’eziologia, può consentire, eventualmente, di intervenire prima che la malattia raggiunga stadi più severi”. E mi astengo da qualsiasi commento, non solo perché estraneo al contenuto di questo scritto, ma perché demolirebbe qualsiasi mio presunto patriottismo d’organizzazione.

Che i riconoscimenti siano una bassa percentuale delle denunce di per sé è un mero dato, non ancora una informazione. Ma quali dovrebbero essere le “giuste”, o soddisfacenti, probabilità a priori, e frequenza a posteriori, di riconoscimenti e indennizzi? E che dire della misura del danno riconosciuto come di origine professionale, che sia indennizzato o meno? È quindi sufficiente che le percentuali di riconoscimento aumentino, non importa di quanto e come? Oppure sono gli indennizzi che devono crescere, ma ancora in che misura? Attenzione, è purtroppo vero che gli indennizzi in base alle vigenti tabelle per i danni permanenti, che siano danno biologico una tantum o rendite, sono troppo bassi, e che i meccanismi di rivalutazione automatica, risalenti al 2000, insufficienti. Ma queste sono decisioni politiche nel senso più pieno e che stanno su un altro piano, superiore alle competenze dell’INAIL; osservo di sfuggita che gli avanzi di bilancio INAIL consentirebbero incrementi anche sostanziali, ma l’INAIL stessa non ne ha piena disponibilità (ci torno più avanti).

Ancora, quali dovrebbero essere natura, composizione (scelto da chi e come), competenze, poteri del soggetto terzo che assicurerebbe il contraddittorio ritenuto mancante? Potrebbe arrivare a riformare una valutazione, che sia sull’an o solo sul quantum, che ritiene errata? E il giudizio sarebbe dotato di immediata efficacia, o sarebbe sindacabile giudiziariamente? I sintetici richiami a soluzioni adottate in altri paesi fanno riferimento a sistemi di protezione sociale molto diversi da quello italiano, e certe soluzioni non sono meccanicamente trasferibili senza dover modificare l’intero sistema. Osservo comunque che un contraddittorio esiste già: ed anche a non considerare tali le collegiali preventive di raffreddamento del contenzioso e i connessi ricorsi amministrativi, resta sempre possibile un ricorso giudiziario con il particolare rito delle controversie di lavoro e previdenziali, come è noto caratterizzato da un maggior favore per il lavoratore e con possibile partecipazione di enti esponenziali come i sindacati. E giudico qualche più semplice modifica alle suddette norme di procedura civile maggiormente e immediatamente efficace; ad esempio, attraverso un gratuito patrocinio a spese dello Stato (se non universale, almeno su malattie socialmente rilevanti e gravi, come mesotelioma e asbestosi, oppure sugli infortuni mortali, come Bruno Giordano e Marco Patucchi suggeriscono nell’appena pubblicato libro “Operaicidio” pubblicato quest’anno).

Il lavoratore non è poi solo: oltre agli organismi di vigilanza, ai medici di base e alle organizzazioni sindacali con relativi RLS e RLST, può farsi assistere gratuitamente (compartecipazione alle spese per eventuale ricorso giudiziario, specie se si perde con eventuale condanna alle spese stesse se non compensate) dagli Enti di Patronato autorizzati, soggetti questi, come l’articolo riporta nei particolari, da tempo quelli che presentano la maggior parte delle denunce. Ma non posso non ricordare che i Patronati sono rimborsati dallo Stato in proporzione alle pratiche portate avanti, e che quindi hanno un interesse oggettivo ad aumentarle al massimo (che siano denunce, collegiali mediche, ricorsi amministrativi ecc.). Che poi questo possa condurre a un aumento abnorme di pratiche di dubbia motivazione e troppo scarsamente istruite, nonché a una parallela abnorme crescita di collegiali mediche e ricorsi amministrativi più o meno fondati, è altra questione che parimenti non è trattabile in questa sede.

Ma è l’idea che l’INAIL sia una controparte del lavoratore che considero radicalmente errata. A differenza, ad esempio, della citata RC Auto, dove assicurante e assicurato coincidono, e dove l’assicuratore è davvero una controparte, il rapporto assicurativo INAIL (ricordo cosa recitano i sacri testi: pubblico, obbligatorio, automatico, indipendente dalla volontà delle parti in quanto nascente ex lege, irrinunciabile, in quanto si tratta di una assicurazione sociale) è infatti trilaterale: il datore di lavoro assicurante paga i premi all’assicuratore INAIL e questo paga gli indennizzi (che sono solo una quota del risarcimento civilistico quale configurato dal Codice Civile) al lavoratore assicurato. Vige poi (e meno male…) il principio di automaticità delle prestazioni, assente in qualsiasi assicurazione privata: quando il datore di lavoro non ha versato i premi, o quando tale versamento è impossibile perché, come dicevo sopra, magari nel frattempo l’attività dell’azienda ove si è contratta la malattia professionale è cessata, gli indennizzi sono comunque corrisposti.

L’INAIL (in quanto tale, ma ancor meno chi ci lavora e tratta le pratiche) non ha alcun interesse, a differenza di una assicurazione privata, a limitare gli indennizzi per realizzare un maggior utile: l’assicurazione funziona con un bonus-malus, quindi (mi scuso per la semplificazione) quanti più infortuni e malattie professionali indennizzati ci sono in una azienda, tanto più cresce, sia pure con limiti massimi, il premio da pagare; e il bilancio torna in equilibrio. E se l’infortunio o la malattia professionale sono responsabilità del datore di lavoro per violazione/omissione di qualche obbligo di prevenzione/sicurezza/igiene del lavoro normativamente previsto, l’INAIL esercita l’azione di regresso (artt. 10 e seguenti del vigente TU DPR 1124/1965), chiedendo la restituzione degli indennizzi erogati al lavoratore. Lavoratore il quale peraltro può poi ancora agire in sede civile per farsi riconoscere il cosiddetto danno differenziale, cioè appunto la differenza tra il danno civilistico e l’indennizzo INAIL.

Ricordo poi che l’INAIL (mi perdoni chi legge se sembra stia facendo uno spot pro-INAIL…) non si limita a indennizzi monetari: fornisce gratis prestazioni fisioterapiche, riabilitative, protesiche, finanzia iniziative di reinserimento sociale e lavorativo da un lato, compie attività di ricerca e finanzia, in regime di compartecipazione ai costi, investimenti in materia di prevenzione e sicurezza dall’altro, perché, come riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dell’UE, non è solo una assicurazione. Poi possiamo dibattere tutti se queste attività siano svolte adeguatamente ed equamente, o possano migliorare (personalmente ne sono convinto, ma occorre investirci…). Certamente gli avanzi di bilancio potrebbero essere utilizzati in misura maggiore per prevenzione, prima, e tutela, poi, anziché costituire le peraltro obbligatorie riserve tecniche (è pur sempre un’assicurazione), o finire infruttiferi nella disponibilità di cassa del MEF che così deve emettere meno titoli di debito pubblico. Su questi aspetti, che mi paiono poco conosciuti e ancor meno discussi al di fuori dell’INAIL stessa, rinvio ancora alla Relazione annuale 2024 dell’INAIL.

Infine, un’analisi (impossibile in questa sede per mere ragioni di spazio) puntuale delle istruzioni e della prassi INAIL sull’istruttoria delle malattie professionali farebbe emergere che l’INAIL svolge essa stessa gran parte delle attività istruttorie, sulla patologia (perché fa accertamenti medici anche specialistici) ma anche sul rischio (la cui presenza, entità e durata spesso è solo essa a indagare), anche per le ormai numericamente prevalenti, ripeto, malattie professionali non tabellate in cui per legge l’onere della prova sull’origine professionale della patologia è a carico dell’interessata/o che la denuncia. Rinvio, per chi fosse interessato, alle più importanti disposizioni INAIL tuttora vigenti anche se non recentissime, cioè le circolari 23/1988, 29/1991, 35/1992, 51/1995, 80/1997, 81/2000, 70/2001, 25/2004, nonché alle Istruzioni operative D.C. Prestazioni 18 settembre 2003. Si tratta di materiali tutti reperibili sul sito INAIL (non ne ho citati altri non pubblici), che anche a un sommario esame, pur senza giudicare sulla congruità e appropriatezza del loro contenuto, sono a mio parere sufficienti per controbattere l’asserzione che l’INAIL sia, o si comporti come, una controparte del lavoratore.

Quanto all’asimmetria informativa, essa certamente esiste tra lavoratore e datore di lavoro, di diritto e di fatto; ma la causa non sta nel rapporto assicurativo con l’INAIL. Non credo si possa dire che esista invece tra lavoratore e INAIL. Perché? In primo luogo, è l’INAIL che acquisisce dal datore di lavoro il DVR, elemento fondamentale per la valutazione dei rischi lavorativi, e a richiesta può renderlo disponibile al lavoratore stesso con i consueti vincoli che ha il diritto d’accesso agli atti ai sensi della legge 241/1990, e con unico obbligo di acquisire il parere non vincolante del datore di lavoro stesso. Il lavoratore invece da solo non può nemmeno consultare il DVR, e tanto meno estrarne copia; e anche il suo RLS o RLST è vincolato dall’art. 18 del TU 81/2008, il quale stabilisce che il datore di lavoro debba “consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all’articolo 17, comma 1 lettera a), anche su supporto informatico come previsto dall’articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r); il documento è consultato esclusivamente in azienda”. Questi limiti sono originati da asseriti motivi di tutela del segreto industriale, e non discuterò qui se e quanto fondati; quel che conta è che l’asimmetria informativa può almeno in questo caso essere superata con intervento dell’INAIL. In secondo luogo, è attraverso il medesimo esercizio del diritto di accesso agli atti che il lavoratore può avere la disponibilità di tutta la documentazione istruttoria, compresi, entro certi limiti, gli stessi documenti interni dell’INAIL.

I ridotti riconoscimenti delle malattie professionali denunciate davvero disincentivano gli investimenti delle aziende in prevenzione e sicurezza? Mi permetto di sollevare qualche dubbio sulla rilevanza di una tale valutazione, ammesso che le malattie siano legate ai propri rischi aziendali e non a situazioni lavorative pregresse. Faccio notare che il mero rispetto della normativa obbligatoria in merito impone già di per sé degli investimenti, pena sanzioni amministrative e/o penali, e che la gestione di sicurezza, prevenzione e igiene sul lavoro è unitaria per infortuni e malattie professionali: secondo il TU 81/2008 tutti i rischi vanno valutati e per quanto possibile eliminati/ridotti/mitigati. Esistono poi il bonus-malus dell’assicurazione INAIL, la connessa azione di regresso di cui sopra, le responsabilità civili e penali e il D. Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, a incentivare economicamente degli investimenti in maniera diciamo obbligata. Ma se usciamo dal circuito obblighi/violazione/sanzioni ed esaminiamo il rendimento economico degli investimenti in prevenzione e sicurezza, studi ormai consolidati, anche dell’Agenzia UE di Bilbao EU-OSHA o dell’ILO (International Labour Organization) ai quali rinvio, indicano che per essi il relativo ROI (Return On Investment) è pari a 2,5 euro di beneficio per ogni euro investito. Attenzione: se ciò è acquisito per gli infortuni, non mi risultano analoghi studi specifici sulle malattie professionali, la cui prevenzione, per tutti gli elementi sopra ricordati, è assai più complessa e multifattoriale. Ma, come dicevo sopra, la gestione di prevenzione, sicurezza e igiene del lavoro, ed oggi anche ambientale che opera sulle concause (vedasi il generalizzato acronimo HSE) è unica e indissolubile dalla complessiva gestione aziendale.

Conclusioni
Da quanto sinora esposto, i mancati riconoscimenti delle malattie professionali denunciate originano a mio parere dall’insufficienza della documentazione istruttoria: troppo spesso il certificato medico di malattia professionale è, a dir poco, parco di informazioni ed è l’unico documento allegato alla denuncia di malattia professionale (vedasi le numericamente maggioritarie malattie professionali da movimenti ripetuti e/o posture incongrue). Questa insufficienza ha più cause e riguarda più attori, INAIL compresa. E se vogliamo una maggior emersione della malattia professionale prima (se proprio non si riescono a prevenire…), e percentuali di riconoscimento più elevate con indennizzi quantitativamente appropriati, occorrono:

  • una maggiore conoscenza del fenomeno da parte dei medici di base;
  • una auspicabile maggior propensione alla denuncia da parte dei medici competenti (certo non facile, stante il rapporto fiduciario esistente con il datore di lavoro);
  • maggior personale e risorse negli organismi di vigilanza/sorveglianza delle ASL e dell’INAIL;
  • più medici specialisti in Medicina del Lavoro “sfornati” dalle Università;
  • miglioramento e implementazione delle banche dati (quali MALPROF), loro organico inserimento nel SINP (Sistema Informativo Nazionale Prevenzione, ex art. 8 del TU 81/2008), approfondimento della ricerca medica, soprattutto in relazione alle patologie emergenti (ad esempio stress lavoro-correlato) e all’invecchiamento della popolazione lavorativa, ai fattori concausali;
  • miglioramento qualitativo delle denunce di malattia professionale presentate dai Patronati e relativa documentazione (nella consapevolezza che è operazione complessa e onerosa, e dell’interesse oggettivo alla quantità delle pratiche cui accennavo prima; ma senza dimenticare come alcuni Patronati non solo curino molto e meglio di altri la qualità, ma hanno fatto da battistrada sull’emersione e successivo riconoscimento del carattere professionale di molte patologie);
  • risorse professionali quantitativamente e qualitativamente adeguate e specializzate all’INAIL, che siano sanitarie (Medici del lavoro, in primo luogo, ma non solo) o amministrative, entrambe oggi insufficienti;
  • consulenti tecnici d’ufficio specializzati presso i tribunali (rinvio al libro “Operaicidio” citato sopra, da cui traggo la suggestione).

30 ottobre 2025
Maurizio Mazzetti

 

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